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Non è facile
ricordare certe cose. A volte si crede di aver seppellito
per sempre nella propria mente un fatto, un episodio
particolare; poi tutto ad un tratto il ricordo schizza
fuori incontrollato dai sepolcri della memoria.
Nel mio
caso è fuoriuscito con una prepotenza tale che non mi è
stato possibile reprimerlo o ricacciarlo nel
dimenticatoio, nei recessi del passato, dove sonnecchiava
latente fino a quell'istante anziché essere, come avevo
creduto, definitivamente scomparso.
Stavo suonando il pianoforte, infischiandomene
letteralmente sia dell'ora sia dei miei vicini di muro,
quando all'improvviso è emerso, dagli anfratti bui della
mia cavernosa e intricata memoria, il ricordo di quella
farneticante e delirante notte.
Tac.
Ha invaso senza precedenti ogni piccola parte del mio
corpo. Stonai addirittura l'accordo che in quel momento
determinava e dominava il passaggio da moderato a mosso
della mia melodia preferita. La stonatura riverberò per
qualche istante la sua sgradevole tonalità, rimbalzando
fino a perdere d'eco, sui muri del mio piccolo studio.
Rimasi in silenzio, avviluppato dal ricordo e dalle
sensazioni che lentamente lo stesso mi fece rivivere.
Come dicevo, non è facile ricordare certe cose.
Non mi preoccupava tanto il fatto che il ricordo fosse
riemerso; bensì la permanenza che avrebbe avuto in
avvenire nei miei pensieri. Avrei dovuto quindi convivere
nuovamente con quei ricordi, già seppelliti nelle
tenebre del mio cervello?
Quali indicibili angosce mi avrebbero assalito nei
giorni, nei momenti a venire, precedenti alle lunghe,
interminabili, implacabili notti insonni dai denti lunghi
come zanne di belve inferocite, pronte a mordere nella
mente, senza pietà, dilaniando cellula per cellula ogni
forma già fragile e vacillante di tranquillità e di
benessere.
Oh, povero me, pensavo tenendomi il viso tra le mani,
curvo sullo sgabello, nel silenzio sepolcrale che regnava
in quella piccola stanza dalle pareti color crema
completamente spoglie.
Poi una piccola, lieve, ma benefica forza, mi pervase da
capo a piedi. Furono forse le difese del mio inconscio
che cominciarono ad organizzarsi contro quella malefica
reminiscenza. Mi dissi che tanto tempo era passato da
allora e che io, negli anni e nelle vicissitudini
affrontate, ero cambiato. Nel corso di quella remota e
fatidica notte (il cui ricordo credevo fosse
definitivamente trapassato), avevo visitato la città
delle tenebre e avevo aperto tutte le porte che in essa
si rivelano al mio passaggio ostentandomi i più oscuri
luoghi, che nessun uomo oserebbe mai nemmeno immaginare.
Conobbi ed affrontai l'essenza più malvagia,
l'incarnazione stessa del maligno: la morte. Ma allora
perché stavo rabbrividendo? Perché sentivo tremare il
mio corpo, come scosso da un vento impetuoso, ma
inesistente. Guardai l'orologio. Erano appena scoccate le
due del pomeriggio e non sapevo ancora come mi sarei
dovuto comportare.
Dovevo forse ignorare le rimembranze del passato che
sentivo distintamente ed inesorabilmente impadronirsi dei
miei sensi? Non è mai servito a niente e a nessuno
scappare di fronte a un evento che non lascia alternative.
Vale sempre la pena di affrontare, faccia a faccia, il
nemico che ti ha costretto spalle al muro in un vicolo
cieco e morire, se necessario, piuttosto che subire
passivamente l'infliggere della pena, meritata o ingiusta
che sia. Accettai quindi i ricordi, con più obiettività,
con maturità fiera e combattiva.
Che venga il ricordo, che mi spacchi in due se ancora può.
Che mi colpisca forte e sicuro, io saprò difendermi dai
fantasmi del passato. Che non fallisca però, io potrei
rifarmi, potrei vincere questa volta, non accontentandomi
più di ricacciare un ricordo in fondo alla mente, ma
addirittura potrei riuscire a debellarlo definitivamente.
Il pensiero accettò la sfida, forte della sua potenza,
forte del suo potere malefico e devastante che un tempo
ebbe a imprimere sulle fragili e sottilissime trame della
mia psiche, il proprio perverso marchio. Cominciai col
ricordare i tuoni, i lampi. Ero poco più di un ragazzo,
una peluria incerta ornava il mio volto magro e scavato,
triangolare. Avevo braccia forti e gambe velocissime.
Correvo come un disperato nella notte più nera che
avessi mai visto prima. I soldati avevano invaso tutta la
zona e avevano giustiziato atrocemente tutti gli uomini
che si e-rano nascosti. Uccisero poveri e innocenti
contadini indifesi.
Era il colpo di coda di una ormai decadente e sconfitta
dittatura.
Io stavo ritornando in bicicletta quando intravidi nel
buio un drappello di soldati intenti a dar fuoco alla
nostra cascina. Ricordo ancora che il cuore mi saltò in
gola e improvvisamente non fui più in grado di
respirare, persi l'equilibrio e caddi a terra, folgorato
dal terrore. Non avevo più di sedici anni.
Il malore mi permise di sfuggire alla vista dei soldati.
Non sapevo ancora che i miei genitori e i miei fratelli
erano riusciti a mettersi miracolosamente in salvo;
quindi un dubbio atroce mi attanagliò la mente: lo
sterminio della mia famiglia. Restai sdraiato a terra,
nascosto dall'erba e dai rovi che mi graffiarono il viso.
Feci in tempo a vedere le alte fiamme che si levavano
dalla nostra casa verso il tenebroso cielo di quella
notte, divorandola lentamente.
Lingue di fuoco e fumo nero come la pece, denso e fitto,
sembravano affrontare il nulla con arroganza e cattiveria.
Il gruppo di soldati si allontanò. Io aspettai ancora
qualche minuto e mi diressi a piedi verso la cascina. Non
riuscii nemmeno ad avvicinarmi perché fiamme e fumo mi
fecero indietreggiare. Non potevo fare più niente ormai.
Decisi di allontanarmi nei boschi di corsa. La paura,
l'angoscia e il turbinio di sensazioni che si alternarono
dentro di me, mi esortarono a correre ancora più
velocemente. Correvo come se fossi stato inseguito dal
demonio, saltando arbusti e buche profonde, cercando di
raggiungere il bosco il più in fretta possibile.
Lo sparo e il dolore furono tutt'uno. Caddi. Feci due o
tre capriole e mi fermai sulle foglie bagnate. Ricordo
che non capii immediatamente; mi ci volle qualche secondo
per abbinare le cose. Guardai la gamba dolorante e vidi
sia il foro d'entrata, sia quello d'uscita del proiettile
che mi aveva ferito all'altezza del polpaccio destro.
Urlai più per il terrore che per il dolore.
Realizzai l'accaduto e guardai alle mie spalle. Tre
uomini in divisa stavano correndo nella mia direzione ed
erano a una distanza di circa cinquanta metri. Riuscii
non so come a schizzare in piedi e - nonostante l'acuto
dolore che lentamente divampava dall'interno del
polpaccio ferito con un crescente bruciore - corsi
traballando e zoppicando. Sentii ancora due spari che,
fortunatamente per me, non andarono a segno.
CONTINUA...
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