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"So perfettamente di
raccontarvi una storia che ha dell'incredibile.
All'inizio era incredibile anche per me. Ora sono
veramente solo.
Sono l'ultimo essere vivente rimasto a Souty..."
Già, basterebbe una buona
bicicletta e meno di una paio d'ore di pedalate, per
cavarmela. Ma non posso e poi capirete il perché.
Veramente non sono proprio l'unico rimasto. Se è per
questo siamo rimasti in quattro (quelli certi), io e le
tre sorelle. E basta. A Souty, l'ultimo censimento fatto
l'anno scorso, diceva che erano quasi in duemila. E tutto
andava bene. Troppo bene.
Non so nemmeno che giorno sia. Il mese dovrebbe essere
maggio, lo riconosco dall'odore e dalla vegetazione che
riesco a vedere di nascosto, dalla feritoia del solaio.
Non se ne parla nemmeno di mettere il naso fuori dalla
porta. Mi sto cibando con raziocinio da due o tre mesi
approfittando della scorta che avevo in cantina. L'acqua
per fortuna non manca. Mi son deciso a scrivere perché
fra non molto (questione di ore), tenterò di fare
qualcosa in maniera definitiva. In un modo o nell'altro
io saprò finalmente la verità e siccome potrei anche
morire (anzi, arrivati a questo punto credo sia l'ipotesi
più probabile), avrete un punto dal quale iniziare. Se
non altro spero di risvegliare in qualcuno la curiosità
di verificare quello che sto per raccontarvi. Tutto
questo naturalmente, se riuscirò a far sì che troviate
questo manoscritto. Ho già un’idea al proposito...
Vedremo. A Souty - dicevo - fino a circa sei, sette mesi
fa (scusate ma con esattezza non riesco a dirvelo)
stavamo tutti più o meno bene. Certo, vivevamo alla
grande ombra dei grattacieli di Dallas, ma nessuno di noi
ne era veramente attratto: giusto qualche giovane che
ogni tanto se ne andava, più che altro per lavoro.
La maggior parte di noi (io stesso), eravamo contadini.
Gente semplice alla quale piaceva il lavoro che facevamo.
Vendevamo tutti i nostri raccolti, il latte e la carne e
tutto quanto altro producevamo, al mercato di Dallas.
Ricordo ancora con nostalgia i religiosi silenzi
domenicali di Souty. Un'atmosfera quasi irreale di
sonnecchiante e pigra tranquillità avvolgeva i pomeriggi
ovattandoli di ozio, di pace e, soprattutto, di serenità.
Purtroppo questo non potrà mai più accadere.
Mio figlio e mia moglie sono morti quasi subito. Penso
siano stati fra i primi.
Avevo una bellissima famiglia. Mio figlio era sano e
robusto e aveva quasi compiuto sedici anni quando si è
tolto la vita. Mia moglie stava sempre ad accudirlo: i
vestiti, il cibo, i compiti. Gli dava delle sacche grosse
così, piene di roba da mangiare, quando - finite le
scuole o c'era vacanza -, andava in "campagna"
a lavorare. Noi dicevamo così: in "campagna".
Anche se i nostri campi e i nostri modesti allevamenti
erano a solo mezzo miglio dalla nostra cascina. Ted si
divertiva a mangiare lì, anche se poteva benissimo fare
una corsa e venire a casa per farlo.
Non ho ancora veramente mai smesso di piangere per loro.
Anche per tutti gli altri, ma è diverso. Ricordo ancora
gli occhi di mio figlio (si chiamava Teodor, ma lo
chiamavamo Ted) la sera prima di morire.
Mi aveva detto: "Papà, non prendertela. Io ho il
diritto di scegliere il mio futuro. Andrò in quel posto
bellissimo dove potrò diventare ricco e mi hanno
promesso che potrò tornare tutte le volte che vorrò. Io
ci voglio andare, tu non puoi capire. Potrò comprare una
stupenda villa per te e la mamma, al mare, come avete
sempre sognato per la vostra vecchiaia. Non ti
preoccupare, davvero, lo hanno promesso, e non sono
cattive come credi, come credete. Anzi, stanno aiutando
tanta gente. Ricordi il figlio di Eddy? Beh... è guarito.
Non deve più camminare storto. L'ho visto l'altra notte.
Mentre dormivo ha bussato al vetro per svegliarmi. Rideva
ed era contento. Mi ha detto che ora sta bene. Poi si è
messo a correre... Correva, sai papà?" Quando finì
di parlare io scioccamente gli rifilai una sberla. Sapevo
che era sbagliato farlo ma lo feci istintivamente.
Lo schiaffo partì veloce per la sua guancia e non
riuscii a fermarlo. Guardai Ted e vidi brillare nei suoi
occhi una lacrima; è stata quella la prima volta in vita
mai che ho alzato le mani su di lui. Sarebbe stata anche
l'ultima, ma ancora non potevo saperlo.
Mio figlio ricambiò un'occhiata severa, dura, e corse
fuori senza aggiungere una parola.
Mia moglie, che fino a quel momento era rimasta
silenziosa in un angolo del salone - apparentemente
assente ed estranea -, scattò in piedi e rincorse Ted,
senza degnarmi nemmeno di uno sguardo.
Io restai lì, rimbambito dagli eventi. Forse avrei
dovuto fare qualcosa subito. Intervenire rapidamente
magari prendendo il fucile e ammazzare quelle tre
schifose. Ma come vi ho detto, eravamo solo agli albori
di questa inenarrabile vicenda e nessuno di noi sapeva
ancora nulla di preciso. Cercai di convincermi che si
trattava solo di una di quelle crisi che hanno i ragazzi
a un certo punto della loro vita, in cui i padri non li
riescono più a capire.
Ma in cuor mio sapevo che non era così.
Più esattamente credetti sufficiente che una buona
lezione, avrebbe stroncato sul nascere quella delirante
piega che aveva preso Ted. D'altra parte era solo la
seconda volta che andava al "saloon", e di
nascosto. Io lo appresi il giorno prima da mia moglie che
mi raccontava cose che aveva solo sentito dire e che
ancora non avevano una identità precisa.
Guardai Flo correre dietro a Ted, tenendosi le sottane,
in direzione del centro di Souty e ricordo che pensai al
saloon e a Rebecca, e all'incredibile notte passata con
quella donna.
Fu quella l'ultima volta che vidi Flo e mio figlio vivi.
Non ci crederete, ma aspettai tutta la notte prima di
fare qualcosa. È facile adesso dirmi quello che avrei
potuto fare allora, fatto sta che non lo feci.
All'alba del giorno dopo andai in piazza. Era un giorno
lavorativo e c'era poca gente. Chiesi in giro, ma nessuno
seppe darmi notizie.
La gente era sempre la stessa, ma più chiusa; nervosa.
Alcune donne (uomini ce n'erano in giro proprio pochi, lo
ricordo bene) mi fecero cenno con il capo in direzione
del saloon, scuotendo più volte la testa.
Sapevo il perché.
CONTINUA...
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